"L’Istria ha il destino segnato delle terre di confine. Nell’estate del 1914 il corteo funebre dell’Arciduca Francesco Ferdinando assassinato a Sarajevo prese terra proprio a Trieste, in quella che è oggi la bellissima Piazza Unità d’Italia, e iniziò il suo viaggio verso l’Austria attraversando la città. Quell’avvenimento avrebbe segnato l’Europa e il mondo intero e in parte lo segna ancora, con tutto il terribile armamentario che le guerre si portano dietro: stragi, vendette, pulizie etniche, terrore. In quella terra di confine si scontrò il fanatismo nazionalista italiano e fascista con quello slavo, comunista e titino, producendo quel clima di odio etnico che culminò con i massacri delle foibe che oggi qui ricordiamo. Le cifre dei morti nelle foibe non sono ancora definitive. Secondo un libro di Guido Rumici il massacro ammonta a 4-5 mila vittime, a cui vanno aggiunti, secondo studi più recenti, altre 5 mila persone “mancanti” in seguito a deportazioni ed eccidi per mano jugoslava. Due furono le “mandate a morte” più atroci, l’una dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’altra al termine del conflitto, nel maggio 1945. L’annessione tedesca dei territori giuliani e della Dalmazia che, dopo la resa di Badoglio, sbaragliò rapidamente la presenza dell’esercito italiano, segnò un punto di non ritorno nell’inasprimento della resistenza dei partigiani italiani e croati organizzati da Tito, che si impadronirono dell’Istria e vi restarono per poco più di un mese. E’ in questo primo periodo che si registrano processi informali, confische di beni, rappresaglie e, soprattutto, uccisioni di massa con l’eliminazione delle spoglie nelle foibe. Quel mese fu eterno per gli italiani. Gli eccidi ebbero il carattere di una rappresaglia brutale contro ciò che il dominio italiano e fascista aveva rappresentato in quei luoghi. Ma tra il 1943 e il 1945, dopo che, nell’ottobre del 1943, anche l’Istria fu annessa alla Germania, le violenze nazifasciste non furono certamente inferiori a quelle degli jugoslavi, anzi. La popolazione civile di Trieste e della Venezia Giulia subì rappresaglie pesantissime per le azioni dei partigiani sul territorio (basti pensare ai 269 abitanti del villaggio di Lipa, in maggior parte donne, arsi vivi nella primavera del 1944, ai 51 ostaggi impiccati nel Conservatorio di Trieste dell’aprile del 1944 e ai 71 fucilati al poligono di Opicina di un anno dopo). L’entrata dei partigiani a Trieste nel maggio del 1945 significò invece la liberazione dei prigionieri della Risiera di San Sabba, l’unico campo di concentramento nazista ora in territorio italiano dotato di forno crematorio, nel quale morirono circa 5.000 persone e che vide il passaggio di altre 20mila per i campi di sterminio dell’Europa centrale. Alla base della violenza post liberazione vi erano: la rivalsa per le passate atrocità, prima solo fasciste (ricordiamo, a partire già dagli anni ’20, il forte, e anche a tratti sanguinoso, processo di italianizzazione dell’Istria da parte del regime fascista con ripercussioni sulla toponomastica, sui cognomi e sul divieto di utilizzare lingue non italiane) e poi nazifasciste, e ancora, i regolamenti di conti personali e la volontà di attuare una rivoluzione comunista includendo Trieste nella Jugoslavia socialista. Ma sempre di violenza e atrocità ingiustificate si tratta, sia che fossero dirette in modo indiscriminato contro comunità e “razze” intere, come quelle nazifasciste, sia che fossero perpetrate, come quelle “titoiste”, contro avversari politici. Esse non trovano alcuna giustificazione. Gli aguzzini erano e sono in agguato nell’ombra, in attesa che la storia fornisca loro pretesti di portata più o meno estesa: uomini contro uomini, clan contro clan, tribù contro tribù, etnie contro etnie, nazioni contro nazioni.
Ricordiamo oggi, oltre agli innocenti massacrati nelle foibe, le altre vittime del nazionalismo di allora: quei circa 250.000 (la cifra non è ancora definitiva) italiani, istriani e dalmati ma italiani, che furono costretti ad abbandonare la loro terra d’origine per diventare esuli, esuli nella loro patria italiana. “Nessuno può immaginare – scrive Ivo Andric – che cosa significhi nascere e vivere al confine tra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue e non poter far nulla per ravvicinarli, amarli entrambi e oscillare tra l’uno e l’altro per tutta la vita, avere due patrie e non averne nessuna, essere di casa dovunque e rimanere estraneo a tutti”. Quei profughi subirono, a volte, l’onta di vedersi discriminati in Italia perché visti come “stranieri”: stranieri in Istria per gli slavi e stranieri in Italia per molti italiani. Anche Firenze ne ospitò un consistente numero, sicuramente più di 1000, di cui 400 nella ex manifattura tabacchi di Via Guelfa e nella ex chiesa dei Vanchetoni in Via Palazzuolo. La Firenze dei sindaci Fabiani e La Pira, la Firenze dei convegni internazionali per la pace e del patto di amicizia tra i sindaci del mondo, la Firenze accogliente insomma. Famiglie come quella di Sergio Rusich, esule da Pola a Firenze, maestro elementare e scrittore, che Firenze accolse e che a Firenze hanno dato tanto. Ricordando la sua vicenda umana e intellettuale non si può non far cenno al suo poliedrico impegno sociale che affonda le radici nella partecipazione alla lotta partigiana nella natia Istria, interrotta dalla deportazione in un lager nazista cui seguì, dal 1947, il sofferto esilio. Ma dopo il suo trasferimento a Firenze, Rusich non visse solo di ricordi e nostalgia bensì tradusse in impegno concreto la sua testimonianza, diventando un protagonista del mondo della scuola nel quartiere dell'Isolotto, anche al fianco di Don Enzo Mazzi, dove insegnò a generazioni di ragazzi fiorentini profondi valori umani e civili: segno che la diversità delle radici e delle esperienze di vita, ed il loro mescolamento, che oggi avremmo l’occasione di sperimentare con il fenomeno migratorio, non può che significare ricchezza.
Le terre di confine, come l’Istria di allora e come le tante di oggi, sembrano dover scontare un peccato originale: la loro collocazione geografica. Se davvero vogliamo che la tragedia delle foibe non si ripeta mai più dobbiamo, innanzitutto, lavorare per la verità, ma non strumentalizzare la storia. Ho seguito le commemorazioni trasmesse in televisione in questi giorni e ho percepito un atteggiamento molto diverso, per esempio, tra il Presidente del Parlamento europeo Tajani, che ha parlato, in maniera molto sprovveduta e rischiosa di Istria e Dalmazia italiane e il Ministro degli Esteri Milanesi che, in modo molto più equilibrato, ha evidenziato invece, e giustamente, la necessità di aprire gli armadi dei segreti di Stato per meglio capire e conoscere.
Ma prima di tutto questo, per costruire davvero qualcosa, dobbiamo diventare capaci di combattere nelle nostre coscienze quella logica divisiva per la quale è “diverso” tutto ciò che si trova oltre un confine e che, in quanto tale, è da avversare o se ne deve diffidare.
Il protagonista del romanzo “Il paziente inglese” dice: «Tutto ciò che desideravo era camminare su una terra che non avesse carte geografiche».
Adriana Alberici per Firenze Riparte a Sinistra